di Enzo Palumbo
Ho letto con interesse l’articolo di Fabio Granata pubblicato qualche
giorno fa sul sito di Futuro e Libertà, e ciò mi ha stimolato qualche
riflessione, avvertendo subito che cercherò di entrare sull’argomento “in punta
di piedi e con rispetto per tutti”, da esterno quale sono ma anche tuttaltro
che indifferente rispetto al dibattito in corso all’interno di Futuro e
Libertà e di GenerazioneItalia.
Trovo che quello di Granata sia, in tutta la sua prima
parte, una legittima e giustificata rivendicazione di un grande atto di
coraggio politico e di onestà intellettuale, compiuto da Fini e dai suoi più
stretti amici nel momento in cui hanno deciso di separare le loro
responsabilità da quelle del "grande imbonitore", che aveva portato
l'Italia sull'orlo del precipizio; nell'assumere quella coraggiosa decisione,
Fini ed i suoi hanno dimostrato una preveggenza di due anni rispetto al
momento in cui la situazione è apparsa irrimediabile.
Ed è appena il caso di aggiungere che, nei liberali
del PLI, quella preveggenza è stata ben maggiore, essendo cominciata almeno
nella primavera del 2008, quando hanno deciso di affrontare quelle elezioni in
assoluta solitudine, mentre in altri liberali (pochi, per la verità), che
proprio per questo sono approdati al PLI con qualche ritardo, la
previsione del disastro al quale eravamo destinati è maturata anche prima,
addirittura all’indomani delle elezioni del 1994.
Il momento magico per FLI si colloca
nell'estate-autunno del 2010, allorché, sarebbe stato possibile cambiare nel
profondo la storia recente del Paese, se appena Fini avesse avuto
l'accortezza di rassegnare le dimissioni (che sarebbero state certamente respinte
da una maggioranza diversa da quella di governo, così segnando la rottura con
quel mondo) e se, a questo punto, si fosse subito sfiduciato il
governo (invece di ritardare oltre ogni ragionevolezza una resa dei conti che
era ormai scritta nei reciproci comportamenti, il che ha consentito a
Berlusconi di utilizzare le sue copiose risorse per invertire il corso delle
cose).
In quella ipotetica situazione, tuttavia non
realizzatasi, poteva avere forse qualche senso il tentativo di
rivendicare la titolarità di una posizione di “destra repubblicana,
costituzionale e legalitaria”, in contrapposizione con lo scempio legislativo
operato negli anni del berlusconismo dall'altra destra, quella degli affari e
delle leggi ad personam.
Ne sarebbe venuto probabilmente il consenso di una
parte significativa dell'opinione pubblica, disgustata dello scempio che si
andava facendo della legalità, ma pur sempre preoccupata di aprire la strada al
centrosinistra inconcludente e rissoso del secondo governo Prodi, come anche restia ad
accodarsi alla rinascente sirena democristiana.
Ma così non è stato, e quindi attardarsi oggi a
rivendicare quella posizione di "destra legalitaria", come
sembra volere fare Granata, mi appare come una risposta superata rispetto ad un
problema che non c'è più.
Non per questo le cose che scrive Granata nella prima
parte del suo articolo sono meno vere ed apprezzabili; ma bisogna rendersi
conto che, nel frattempo, quello scenario (che allora era effettivamente
emergenziale) è superato da nuove emergenze, che attengono a questioni
esistenziali con cui gli italiani stanno facendo i conti ogni giorno di più.
A mio parere, ciò che va fatto, hic et nunc, è di
attrezzare un'offerta politica che copra uno spazio ben diverso, e cioè quello
del liberalismo organizzato, di cui la società italiana avverte oggi
estremo bisogno, come risulta evidente dalle tantissime iniziative che da
qualche tempo vanno qua e là fiorendo, spesso per sfiorire subito dopo, e ciò
proprio per la mancanza (o, se si vuole, per l'insufficienza) di una
struttura politica adeguatamente attrezzata per tramutare l'aspirazione
istintivamente avvertita in proposta politica credibile, e così coprendo,
nel campo specifico del liberalismo organizzato, un "vuoto italiano"
che appare inspiegabile a tutti i liberali europei.
Se FLI vuole dare il suo importante contributo in tal
senso, la strada da percorrere non mi sembra quindi quella di rivendicare una labiale
collocazione di destra (che porta inevitabilmente, come mi pare che lo stesso
Granata paventi, alla destra sociale storaciana ovvero al radicalismo
turboliberista del tea-party all'amatriciana), ma piuttosto quella di
concorrere alla formazione di un'offerta politica "liberale", nel
senso crociano del termine, affiancandosi (nei modi che non sarà difficile
individuare con generale soddisfazione) a chi questa battaglia la conduce
da anni, pur avendo ben chiara la consapevolezza della propria
insufficienza a ricoprire un ruolo, che è tanto più difficile e gravoso quanto
più drammatici sono i problemi che l'Italia di oggi è chiamata a risolvere
per mettersi al passo delle grandi democrazie europee.
Il dato di partenza è quello della c.d. "agenda
Monti", che oggi tanti sostengono mostrando di subirla e che sarà un'esigenza
anche del futuro, ma che rischia di restare un ricordo del passato se
nella prossima legislatura non ci saranno forti gambe liberali attrezzate
a superare un doppio ostacolo per proseguire il cammino verso l'integrazione
europea e verso l'omologazione delle nostra struttura sociale rispetto a
quelle delle altre società europee: da un lato la barriera del dirigismo
statale e dei corporativismi localistici e sociali, che frenano le dinamiche
della competizione; dall'altro la barriera dell'egoismo individuale, che
impedisce di garantire a tutti lo stesso livello di opportunità nella partenza
per la gara della vita.
Si tratta di due sfide assolutamente liberali, che
richiedono capacità di innovazione ma anche senso della misura ed attenzione
verso le fasce meno fortunate della società, per evitare velleitarismi anarcoliberisti
e rotture sociali, che finirebbero per ostacolare le riforme necessarie al
nostro Paese per diventare una grande democrazia liberale, in cui ciascuno
possa complessivamente riconoscersi pur nella critica verso singoli
aspetti, il che è poi il lievito da cui originano innovazione
e crescita.
Credo che in proposito soccorrano le parole scritte da
Benedetto Croce nel dicembre del 1951 per i liberali di allora (e sulle quali
si sono formate generazioni di giovani liberali), che mi piace qui citare nella
loro letteralità, anche perché, sessanta anni dopo, appaiono assolutamente
profetiche, sino al punto che ci è sembrato giusto riproporle come ragione
sociale del nostro recente Congresso Nazionale:
"Vorrei che coloro che si determinano a
iscriversi al Partito liberale facessero in quell'atto una seria meditazione su
questo punto: che cioè il liberalesimo ha una singolarità, che è l'unico
partito di centro che si possa pensare. Per questa ragione, esso non può
dividersi in una sinistra ed in una destra, che sarebbero due partiti non
liberali. Naturalmente il Partito Liberale esaminerà e discuterà sempre
provvedimenti di sinistra e di destra, di progresso e di conservazione, e ne
adotterà degli uni degli altri, e. se così piace, con maggiore frequenza quelli
del progresso che quelli della conservazione. Ma non può celare a sé stesso
questa verità, che la libertà si garantisce e si salva talora anche con
provvedimenti conservatori, come talaltra con provvedimenti arditi e persino
audaci di progresso. Questi esami e queste discussioni, che si chiudono nel
quadro anzidetto, sono la vita concreta del partito Liberale, e non c'è nulla
di più insulso dell'accusa che il liberalismo, non essendo di un partito solo
ma comprendendoli tutti e due, non è un partito. E' tanto più largo e più
umano, e, in definitiva più forte, quanto più è partito di centro".
Si tratta, in fondo, dello stesso concetto che sarà
più tardi espresso da Isaiah Berlin, uno dei maggiori pensatori liberali dello
scorso secolo, quando affermò che "un liberale sta in mezzo,
perché sta all'estrema destra della sinistra ed all'estrema sinistra della
destra".
E quindi, se, come ci fanno capire Croce e Berlin,
quelli di “destra” e “sinistra” sono termini bugiardi (nella sostanza) ed
ambivalenti (nella forma), non
cadiamo nella trappola e lasciamo che ad usarli siano quelli che su questa
dicotomia ci hanno marciato in passato ed intendono continuare a farlo, utilizzandoli
come trappole per catturare subdolamente consensi che non meritano.
Concentriamoci invece sulle cose da fare per
rispondere concretamente all’appello promosso da Base Liberale e pubblicato su Generazione
Palermo di mercoledì scorso, certamente valido per la Sicilia ma agevolmente
estensibile a tutto il Paese, avendo anche la consapevolezza che la “legalità
repubblicana”, o come altro vogliamo chiamarla, non è patrimonio né della
destra né della sinistra, ma appartiene più semplicemente a tutte le persone
per bene di questo Paese, che sono tantissime e stanno dappertutto.
E facciamo in modo che il prossimo futuro (che mi
piace chiamare, proprio per questo, un "Futuro Liberale") ci
dia la possibilità di attrezzare insieme – senza introdurre nel dibattito
termini oggettivamente divisivi e sostanzialmente inutili – un'offerta politica
che abbia la forza di riformare le tante cose che vanno cambiate e di
conservare le poche cose che vanno conservate; e, più di tutto, che abbia
anche la capacità di distinguere le une dalle altre.
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